Si è giunti al termine dell’esplorazione sulla genesi dell’universo. Un’universo in cui tutto è Uno, immagine del principio immanifesto del cosmo, il Demiurgo-Puruśa
Questa è la conclusione del Timeo platonico (T92C): l’universo contiene in sé tutte le forme viventi, mortali e immortali, le cose visibili e quelle solo intellegibili grazie al discernimento. Altro non sono che imagini del Demiurgo, il principio immanifesto corrispondente al Puruśa vedico.
Donne e animali, frutto della reincarnazione
Lo abbiamo già esaminato in dettaglio in un capitolo precedente: l’uomo, inteso come individuo maschile, è la prima e migliore generazione dei viventi creata dagli dèi sulla base delle indicazioni del Demiurgo: se esso spende male e in modo malvagio il tempo che gli è dato in questa vita è inevitabile al momento della morte che l’anima, dopo aver lasciato il corpo, si reincarni nella seconda generazione di esseri mortali: le donne (T 91A). La congiunzione tra i due è funzionale alla riproduzione della specie, un desiderio così forte e difficile da controllare che può anch’esso essere fonte di forti passioni (T 91 C-D).
Gli animali sono il frutto di ulteriori cicli di reincarnazione: gli uccelli, in particolare, derivano da uomini che cercavano con la vista (i sensi in senso lato) la dimostrazione circa la veridicità delle teorie sull’essenza dell’universo da essi studiate. Uomini dotati d’intelligenza, quindi, ma che non l’hanno utilizzata nel modo giusto per arrivare alla vera conoscenza (T 91E). La verità sull’universo, come ampiamente visto, è conseguibile solo attraverso strumenti di conoscenza meno legati alla realtà fenomenologica e più rivolti all’esplorazione degli oscuri universi interiori sotto la guida dei testi della tradizione e del Maestro. I mammiferi e le fiere derivano da uomini non interessati alla speculazione filosofica degli universi superiori, in quanto le loro azioni sono unicamente guidate dal cuore (rajas, l’anima irascibile di Platone) e non dalla ragione (sattva, la saggezza, l’anima razionale, Buddhi). Il fatto che il livello di anima predominante in questi individui sia collocato su un piano inferiore dell’organismo rispetto alla testa fa si che essi non siano in grado di mantenere la postura eretta, ma bensì camminino a quattro zampe in quanto necessitano di maggiori sostegni per non essere tirati giù verso la terra, e hanno teste oblunghe in quanto la circolazione nella testa risulta oppressa a causa dell’inattività (T 92A).
I serpenti sono un livello animale ancora più basso, del tutto appiattito a terra, strisciante e privo di zampe, in quanto derivante da uomini che hanno perso completamente la ragione (T 92B). I pesci, infine, sono il livello di reincarnazione più basso in assoluto, in quanto derivanti da uomini privi di senno e ignoranti, che gli dèi hanno giudicato non essere nemmeno degni di respirare l’aria in quanto la loro anima è “contaminata da ogni forma di disordine”, e finiscono quindi a respirare acqua buia e torbida.
Ogni rinascita porta a reincarnarsi a un diverso livello lungo questa scala di evoluzione animale, a seconda degli atti messi della vita precedente: Platone attribuisce, infatti, tali trasformazioni all’interno del regno animale a perdita e acquisizione d’intelligenza, o perdita del senno (T 92C). La legge del karma della tradizione occidentale.
Sciogliere i legami del karma
Analogamente, anche il Samkhya si chiude con un’analisi dettagliata delle modalità con cui l’anima che ha raggiunto la vera conoscenza del Sé supremo, la liberazione, non rientra più nel ciclo delle reincarnazioni.
L’anima liberata diventa uno spettatore indifferente a ciò che accade sul palcoscenico del teatro del mondo (SK 66). La Natura è riconosciuta per le sue caratteristiche di livello immanifesto della creazione, specchio di Puruśa. L’attività dei guna si acquieta, il pieno potenziale è a disposizione, in quanto non sussistono più motivi ad agire in modo volontario.
Torna ancora una volta la metafora della danzatrice che ha concluso la sua rappresentazione: essa, impersonificazione della natura che si è rivelata (prakriti), si ritrae cessando l’attività produttiva di forme sempre nuove di manifestazione. Lo spettatore-anima (drashtu), analogamente, rimane distaccato e indifferente a quello che succede di nuovo sul palcoscenico della vita. Entrambi non cessano di esistere, anzi sono ancora a contatto e consapevoli uno della presenza dell’altra, ma semplicemente non ci sono motivi per disturbare il placido e stabile status quo in cui si vengono a creare. Se vi ricordate, all’inizio del viaggio avevamo paragonato la creazione alla comparsa di piccole onde a causa del vento che increspa la superficie perfettamente liscia in un laghetto alpino: ecco, la liberazione è conseguita quando le acque del lago rimangono tranquille e inalterate anche se attorno soffia un forte vento. Sia l’anima che la natura hanno riconosciuto il proprio essere Uno col Tutto, non c’è motivo di alterare questo stato di perfetta unione universale per tornare indietro ad uno stato differenziato.
Il raggiungimento di questo stato unitario fa si che si annullino anche gli effetti provocati dall’azione dei klesha, delle passioni e degli attaccamenti, che diventano anch’essi improduttivi: questo avviene mentre la persona è ancora in vita, non necessita della morte del corpo (S.K. 67). E’ la condizione propria dei grandi maestri dello yoga, dei santi cristiani, dei saggi di ogni tradizione e di tutte quelle persone che sono in grado di vivere al meglio la propria vita anche nelle più gravi difficoltà. Si può essere liberi anche nello spazio di una piccola cella di prigione, se la liberazione è stata conseguita. E spesso la prigione peggiore è proprio quella che ci infliggiamo con le nostre stesse mani per seguire il richiamo dei sensi e delle passioni. In questo stato, al momento della morte si realizza l’ultimo stadio del distacco, il mahasamadhi, la separazione definitiva dal corpo. L’anima liberata non rientra più nel ciclo delle reincarnazioni e permane nell’eternità nel suo vero Sé, in unione totale con il Sé universale. Ha finalmente riscoperto la sua vera, eterna natura; il corpo fisico non serve più, l’anima risplende nel suo infinito, perenne isolamento (SK 68).
Polvere di stelle

Ogni viaggio giunge alla fine, siamo arrivati al termine di quello che ci ha condotti lungo le vie spesso impervie dell’analisi parallela di Timeo e Samkhya. I due testi fondamentali della filosofia naturale a Oriente e Occidente, abbiamo visto strada facendo, delineano visioni molto simili dei macrocosmi universali e dei microcosmi umani, sistemi strutturati sulla base di leggi analoghe che si esplicano in scala diversa.
I due testi indicano anche la via verso la vera conoscenza, l’unica in grado di liberare l’uomo dall’inevitabile sofferenza che lo attanaglia di generazione in generazione lungo i secoli. Una conoscenza che passa attraverso la piena comprensione degli universi interiori e delle leggi che li governano molto più che da quella della realtà esteriore. In questo, la scienza yogica e quella platonica sono affatto diverse dalla visione scientifica moderna, tutta rivolta a delucidare il reale sulla base dell’evidenza dei fatti oggettivi, dimostrabili con esperimenti di laboratorio (un laboratorio esterno, grossomodo identico ovunque nel mondo) da chiunque gli salti in mente di sfidare la robustezza di una certa teoria scientifica.
Questo modo di procedere, e lo dico dall’alto della mia esperienza diretta di ricercatrice scientifica, priva completamente il progresso delle scienze e dell’uomo del punto di vista soggettivo dello scienziato sperimentatore: un punto di vista inevitabilmente basato sull’esperienza individuale, che può risultare difficilmente comprensibile e accettabile e men che meno replicabile da chi la pensa in modo diverso. Ma spesso è proprio questa soggettività che accende la scintilla inaspettata della scoperta, quella a cui gli altri scienziato coinvolti nella corsa per pubblicare prima non hanno ancora pensato, quella di cui sono gelosi. Va bene, quindi, una visione standardizzata del mondo, dove le voci fuori dal coro del pensiero univoco sono scomode e vanno il più possibile inattivate, stroncando le loro ricerche o mettendole in ridicolo come il prodotto di chi vive nel mondo dei sogni piuttosto che nella realtà.
E’ proprio questo il punto, lo abbiamo visto lungo tutto il viaggio: il vivere unicamente a contatto con la realtà fenomenica ci impedisce di vedere la realtà ultima dell’universo che ad essa soggiace, e a cui tutti, in un modo o nell’altro, aspiriamo a tornare. Per superare quest’ultimo scoglio dobbiamo riuscire a scindere i legami che ci tengono avviluppati nel sensibile, le passioni, le gioie e i dolori.
Quando si riesce a fare ciò, si capisce cosa c’è sotto il velo di Maya, e ci si rende conto che il più grande obiettivo non è il prolungare la vita in questo mondo sensibile, ma riuscire finalmente, al momento del distacco dell’anima dal corpo, a fare in modo che essa abbia davvero dissolto alla base tutti i legami del karma e che, quindi, non sia più costretta a reincarnarsi, ma ritrovi una volta per tutte la sua vera natura di onda eterna che illumina l’universo.
Personalmente, il velo di Maya ha iniziato a scostarsi nel momento in cui ho abbandonato l’indagine puramente scientifica della vita per dedicarmi maggiormente a un’indagine interiore del mio personale microcosmo-laboratorio interno per mezzo dello yoga. Non ho, ahimè, ancora raggiunto la liberazione finale, ma se non altro adesso ho chiaro il cammino da seguire. Una parte del mio viaggio è stata riassunta in queste pagine, sperando che possa servire da risveglio e ispirazione anche per altre anime in cerca di possibilità per una vita migliore in questo mondo sempre più lontano dall’essenza vera dell’uomo. Continuerò il mio viaggio, la meta è chiara al termine del Cammino: tornare ad essere polvere di stelle, energia finalmente non più reincarnata che si gode l’abbronzatura eterna dell’universo Ultreia!